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Chiamami per nome

“Il nome d’un uomo non è come un mantello che gli sta su penzolante e gli si può strappare e stracciare di dosso, ma una veste perfettamente adatta, o come la pelle concresciutagli, che non si può grattare e graffiare senza far male anche a lui”

– Johann Wolfgang von Goethe –

Non è ancora chiaro ai più, se sia nato prima l’uovo o la gallina. Il paradosso di aristotelica memoria che riesce ancora a conturbare i ragionamenti di molti pensatori lascia qui il passo ad un quesito meno celebre, ma non meno interessante.

 “Viene al mondo prima un bimbo o il nome che porterà?”

In questo caso, a ben riflettere, la risposta esiste e non è poi così paradossale.

Del resto…

In principio era il Verbo

La parola nome, in latino nōmen, ha una radice comune a molte altre lingue indoeuropee e mostra una significativa assonanza con numen, termine latino utilizzato per definire in generale la potenza divina immanente in tutta la realtà. Quindi, ad una prima occhiata, sembra che il nome abbia, in qualche modo, a che fare con il divino.

E a questo punto può non stupire che la Bibbia, per citare un esempio a noi culturalmente vicino, sia così straripante di riferimenti al nome, così come al nominare, al dare o al ricevere un nome, al cambiare il nome, al disvelare il proprio o l’altrui nome. 

Nei Dieci Comandamenti si fa divieto di nominare il nome di Dio invano; Gesù nel presentare la sua missione riferisce: “Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste” 

Si dice nel Vecchio Testamento: senza il nome non si esiste e “senza nome un uomo non vale nulla”. Ed ancora: pronunciare il nome su un oggetto è prenderne possesso; chi ha scritto su di sé il nome di Dio è suo servitore.

In molti passi biblici emerge così che attribuire un nome a qualcuno o a qualcosa abbia il significato di “far esistere”, quindi “dominare”, così come conoscere il nome di qualcuno significhi esercitare potere su di lui.

Allo stesso modo e per gli stessi motivi, tra i nomi di tutto ciò che esiste, c’è un nome impronunciabile che non proviene dagli uomini, ed è proprio il nome di Dio.

Nella Bibbia ebraica il tetragramma sacro YHWH, cioè la combinazione di quattro lettere dell’alfabeto ebraico che compongono il nome di Dio, rende volutamente impossibile la sua pronuncia. Infatti YHWH non può essere pronunciato perché manca di vocalizzazione e quando nella Scrittura gli ebrei incontrano questo nome lo sostituiscono con un più formale Adonai, che indica genericamente “il Signore”. Il nome è talmente “prossimo” alla persona che ancora oggi i rabbini non pronunciano, per rispetto, il nome
divino, usando al posto di questo delle perifrasi (una è proprio “il Nome”, Ha-shem).

Il nome, quindi, come centro di potere per palesare i propri intenti, per fare pressione, per convincere, per manifestare la propria autorità, finanche per dissociarsi: “In nome di Dio, fermatevi!”; “Vengo in nome della pace”; “In nome della Legge, vi dichiaro colpevoli”; “In nome del cielo, aprite!”; “Non nel mio nome”.

Non meno della religione, il variegato mondo dell’arte si mostra altrettanto ricco di attinenze di questo tipo.

Come non ricordare l’intrepido Calaf, il principe ignoto che, innamorato della bellissima Turandot, canta nella notte affinché, rimanendo celato il suo nome, possa egli rimanere in vita e con le prime luci tentare di sciogliere il gelido cuore della sua amata? Ormai è l’alba del nuovo giorno e Calaf bacia la donna alla quale può finalmente rivelare il suo nome.

Davanti all’imperatore suo padre e alla folla esultante, Turandot dichiarerà che il nome dello straniero è “Amore” e finalmente lo abbraccerà.

Il nome identifica e rappresenta la persona che lo porta: dove c’è il nome, c’è la persona.

Ed ancora

Nel suo prezioso libro, Donne che corrono coi lupi, Clarissa Pinkola Estés racconta una breve storia di origine afroamericana nella quale il protagonista Manawee desiderava avere per mogli due sorelle gemelle, ma il padre delle due giovani gli aveva intimato che avrebbe concesso le proprie figlie solo se egli fosse riuscito a indovinarne i nomi. Manawee, infine, riuscirà in quell’impresa grazie all’aiuto del suo fedele e prode cagnolino (simbolicamente il suo lato selvatico ed intuitivo).

La stessa autrice afferma:

“Il nominare una forza, una creatura, una persona o una cosa presenta vari connotati. Nelle culture in cui i nomi sono accuratamente scelti per i loro significati magici o augurali, conoscere il vero nome di qualcuno significa conoscere il percorso esistenziale e gli attributi della sua anima. E il motivo per cui il vero nome è spesso tenuto segreto è di proteggere colui che quel nome porta affinché
possa crescere nel potere del nome, affinché nessuno lo denigri o lo distragga e l’autorità spirituale della persona possa svilupparsi appieno”.

Ed ancora

“…spesso si vuol conoscere il nome per riuscire a convocare quella forza o persona, per chiamarla accanto a sé e avere con lei una relazione”*…]. Dire il nome di una persona è come esprimere un augurio o una benedizione ogni volta che quel nome viene ripetuto”

Si potrebbe continuare a lungo ricordando Oscar Wilde con il suo “The importance of being Ernest”, romanzo nel quale emerge il portato emotivo, nonché esistenziale, del protagonista Jack che va in città per frequentare la borghesia, ma ritenendo che il suo non sia un nome abbastanza interessante per i suoi scopi si presenta come Ernest, nome che sceglie per l’assonanza tra “Ernest”, appunto, e “earnest” che in lingua inglese significa serio, sincero, onesto.

Ed ancora

la contemporanea Margaret Mazzantini che nel suo romanzo “Splendore” – affrontando non a caso il delicato tema dell’identità – farà dire ad uno dei due protagonisti:

“Il mio nome pronunciato da lui, con la sua voce roca e fonda, il mio nome che nasceva dalla sua pancia e passava attraverso la sua gola era il più bello del mondo, infondeva coraggio alla mia misera persona, scivolava dentro di me e mi definiva, mi dava luogo e tempo, e un’origine certa.

Quindi il nome come fulcro di essenza, come aggregato magico, come rievocazione; il nome come suono di una matrice interiore che può mutare e ridefinirsi se a pronuncialo è la persona amata.

I nostri padri latini solevano dire “nomen omen”, nel nome un destino, derivante dalla credenza che nel nome della persona fosse indicato il suo destino.
Ed ancora

“nomina sunt omina”, i nomi sono gli uomini.

Con ogni probabilità i Romani non intendevano (ingenuamente) dire che chiunque si chiami Fortunato lo sia o si senta davvero tale lungo tutto il corso della sua esistenza, e similmente che tutte coloro che portano il nome Vittoria saranno o si sentiranno persone baciate dal successo.
E’ piuttosto una questione che va al di là del mero aspetto augurale, per quanto significativo.

Il nome è di fatto la nostra prima eredità; è il lascito che riceviamo ancor prima di vedere la luce, una vera e propria dotazione che rivela immediatamente quanto siamo interconnessi agli altri sin dall’inizio della nostra esperienza umana.
Non di meno, è un’eredità che ci proviene senza alcun nostro consenso. Una sorta di punto di partenza; un vestitino che qualcuno ci ha cucito addosso senza che noi dessimo la nostra disponibilità a prendere le misure. Un’unione celebrata nella notte.

Del proprio figlio i genitori scelgono il nome – o più nomi, in barba all’avarizia – completamente al buio, senza averlo ancora visto, senza conoscerlo e senza averne saggiato il carattere. Il nome può esser così figlio di un’idea, di un desiderio, di un’emozione, di una costrizione, a volte di una speranza, di un’assonanza, di un’immagine, talvolta di una memoria; altre ancora è frutto di una promessa
da mantenere, di un’aspettativa, di una virtù da trasmettere (o che il genitore non è riuscito ad incarnare), di una rivalsa, di un fenomeno culturale, di una singolare congiuntura, o di qualcosa di significativo che, consciamente o inconsciamente, si vorrebbe portare – o riportare – in vita.

E’ così che ogni nome porta con sé un’immagine, un’intenzione, un’idea e un desiderio originali che impregnano anche noi, il nostro corpo, la nostra identità, il nostro stare al mondo.

Il nome di battesimo col tempo può diventare un diminutivo, un vezzeggiativo, un soprannome o mutare completamente; basti pensare ai nomi d’arte, agli antichi nomi di battaglia, o ai diversi nomi che i monaci e le monache ricevevano insieme con le vesti religiose. Quel che è certo è che il nome proprio, nel suo essere privo di numero – a differenza dei nomi comuni – e con quella sua lettera iniziale in maiuscolo, ci individua e ci identifica; ci rende conoscibili e riconoscibili; ci distingue e ci rende significativi; evoca costantemente la nostra primordiale dinamica relazionale con tutte le sue implicazioni.

Non per niente anche ai nostri animali domestici diamo un nome che li identifica, li rende unici e che certifica il loro essere degni del nostro affetto; le bambine danno un nome alle bambole che per loro hanno più valore e perfino i pescatori ne danno uno alle barche con cui sogliono affrontare il mare di notte.

Tutto il resto è anonimo (“senza nome”), appartiene ad un unico magma indifferenziato che si staglia alla nostra vista, esteriore e interiore, alla medesima distanza, che è una distanza tanto fisica quanto emotiva e sentimentale.

A tal proposito si può ricordare come, tragicamente, nel ghetto di Auschwitz la prima cosa che veniva fatta ai prigionieri era la rimozione del nome in favore di un codice numerico. Non era per caso o per opportunità: era necessario de-umanizzare le vittime per renderne l’omicidio più semplice.

A questo punto facilmente si intuisce quanto il nome di ciascuno di noi abbia un portato che si dipana su più livelli. Un livello abbraccia certamente la dimensione individuale, così come quella affettiva, emozionale, sentimentale, relazionale, psicologica.

I nomi funzionano come segni di relazioni affettive e, di conseguenza, come segnalatori emozionali: come
tutti sappiamo, il proprio nome possiede fortissime potenzialità evocative (cit. [De Pina Cabral J., La soglia degli affetti: considerazioni sull’attribuzione del nome e la costruzione sociale della persona, pag. 151)

Ad altro livello, che si interseca e si fonde con il primo, il nome è funzionale, sociale, culturale; si confronta col comune sentire, si misura col senso estetico dell’epoca, affonda le radici nella storia popolare, si incontra (o si scontra) con le tradizioni del luogo, con le memorie storiche e personali, con le credenze religiose – persino con le superstizioni – nonché con l’inconscio collettivo dal quale, alla fine di ogni buon conto, proviene.

L’attribuzione del nome è quindi un passo fondamentale nella costruzione sociale della persona, uno dei principali mezzi d’integrazione tra la riproduzione sociale e la riproduzione umana. (cit. De Pina Cabral)

Vi sono ancora livelli non meno significativi dei precedenti che varrebbe la pena di esplorare di cui il nome di ciascuno di noi è pregno: spirituale, energetico, vibrazionale, simbolico, archetipico, alchemico, e magico.
Già da queste poche riflessioni si può intuire, se non comprendere, l’importanza psichica e sociale del proprio nome personale, nonché della cura amorevole che i genitori nello sceglierlo dovrebbero riservare.

C. G. Jung, a tal proposito, scrive: 

L’atto dell’imposizione del nome è, come il battesimo, qualcosa che riveste importanza enorme ai fini della creazione della personalità, giacché da tempi immemorabili al nome è attribuito un potere magico. Ed ancora: “Conoscere il nome segreto di qualcuno significa aver potere su di luiConferire un nome significa quindi conferire potenza, investire di una personalità o di un’anima
determinata (di qui l’antica usanza di dare ai bambini nomi di santi)”

Da un punto di vista giuridico, tanto differente quanto congruente al precedente, il diritto al nome è un diritto costituzionalmente riconosciuto e garantito. In quanto diritto della personalità, il diritto al nome è assoluto, indisponibile e non patrimoniale; si acquista al momento della nascita e, poiché può stare a sé come sinonimo della persona, gode di una puntuale tutela nel nostro ordinamento.

Sembra dunque emergere che, come tutto ciò che fa parte dell’umano vivere, il nome sia frutto di un complesso di elementi, e che tale complesso di elementi vada ben oltre le parti che lo compongono.

E’ così che il nome si può immaginare come il titolo del nostro personalissimo romanzo. Un romanzo fatto di un’introduzione che altri hanno scritto per noi; fatto a volte di una prefazione confusa e dolorosa; di dediche e di citazioni che cambieranno di continuo nel tempo; di ringraziamenti che forse già ci sono o che forse non ci saranno mai; di personaggi amati, di antagonisti odiati e temuti, conosciuti o tristemente ignoti; di un intreccio più o meno complicato e di tante narrazioni interiori che non potranno che influire sul finale e sul destino del protagonista.

Nomen omen…

E’ mai esistito un libro uguale ad un altro? Ecco perché il nome porta con sé un mistero; ecco perché sentirsi chiamare ad alta voce in mezzo ad una folla di estranei ci può far sentire “nudi”; ecco perché una persona che ci si rivolge chiamandoci per nome suscita in noi un inspiegabile guizzo interiore; ecco perché tutti coloro che portano il nome Leonardo o Sofia non proveranno le stesse sensazioni quando dovranno presentarsi o quando sentiranno pronunciare il loro nome.

E se è vero – come è vero – che ciascuno di noi è in relazione con tutto ciò che lo circonda, sia dentro che fuori, noi siamo in relazione anche con il nostro nome, con tutta la narrazione che contiene, con tutto il carico emotivo, con le vibrazioni di cui è dotato, con la forza o la fragilità delle nostre radici, con il valore e i gradi di libertà interiore che sentiamo di avere, con il modo in cui sentiamo di essere percepiti dal mondo in cui abitiamo; perché quel nome fa parte di noi, è il nostro alter ego, e porta con sé la nostra essenza.

Potremmo, a questo punto, mossi dal desiderio autentico di esplorare noi stessi, “sentire” cosa proviamo nel pronunciare il nostro nome?

Potremmo permetterci di girare la copertina che reca quel titolo e avere il coraggio di leggere quel personalissimo, unico e irripetibile libro?

E magari influire (“scorrere dentro”) sul finale?

Che narrazione si cela dietro il nome che porti?
Conosci la magia che reca il tuo nome?
Qual è il tuo mistero?

Ma il mio mistero è chiuso in me. Il nome mio nessun saprà…

Di Rita Fondacaro

 

 

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