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Occhio non vede, cuore non duole
Riflessioni sul Periscopio Scuola IGEA

Assieme agli enigmi, il periscopio rappresenta la coda dell’intenso fine settimana che si trascorre in Accademia. E la coda, come nell’uroboro, forma un cerchio inglobando e connettendo tutto ciò che è stato detto. Ci indica la circolarità e il ritorno. L’Eterno ritorno. È infatti uno sguardo, un’esplorazione nei confronti di ciò che è accaduto e accade attorno a noi e, a proposito di sguardo, l’ultimo periscopio si apriva con una tremenda e crudele immagine. Da un lato un volto splendido e sorridente, dall’altro, uno sofferente con un occhio chiuso e l’altro bendato. È lo stesso sguardo di Ghazal Ranjkesh, giovane studentessa iraniana colpita all’occhio da un proiettile mentre protestava.

Adesso che le ho scritte così vicine, non posso non pensare all’etimologia di queste due parole, la prima “attestare/dichiarare pubblicamente”, la seconda “proietto”. Si tratta di un’espulsione dal dentro al fuori e, un po’ come le nostre proiezioni, nascono da un tentativo di difesa. Ma in questo caso è l’altro a difendersi e da che cosa? Da che cosa si difende chi spara a queste donne agli occhi, al seno, ai genitali e che ora le accusa anche per la siccità? Dalla paura di sentire la loro voce, i loro diritti e desideri. Di vederle libere in tutta la loro forza e bellezza.

RI-BELLE è stato, fra l’altro, il titolo della performance di Zoya Shokoohi artista iraniana che ho conosciuto e con cui ho iniziato a collaborare nel 2019 presso lo Spazio Matta di Pescara. Si trattava di un’azione incentrata su tensione-liberazione, dedicata ai movimenti rivoluzionari in corso nel suo Paese, che cercava di tradurre in gesti le parole lette dall’artista e prese dai social. Tensione-liberazione: un binomio che mi fa pensare a tutte le volte che la dottoressa Poli parla di emozioni

Ma, ritornando agli occhi e allo sguardo negato, non ho potuto non pensare di nuovo all’immagine iniziale del Chien andalou, che ho da poco citato nella recensione sulla retrospettiva di Max Ernst a Palazzo Reale, perché sì, anche qui è a una donna che tagliano brutalmente l’occhio, come pure alle opere di Simone Leigh e Belkis Ayón che aprivano l’Arsenale nell’ultima Biennale a Venezia quasi tutta al femminile. Brick House della Leigh, Leone d’Oro come miglior lavoro dell’intera manifestazione, ci accoglieva, imponente, all’ingresso. Un busto monumentale, di bronzo che fonde una tipica casa africana ad obice (forma che serve, fra l’altro, per regolare la temperatura interna dell’abitazione), con il volto di una donna nera senza occhi. La sua fierezza potrebbe farci pensare ad una dea. Una dea bendata o una donna iniziata che volge lo sguardo alla sua interiorità. Sappiamo però che l’artista dedica la sua ricerca alle Black Women, che si incentra sullo stereotipo della Mammy, della donna africana e ne denuncia tutto ciò trattando anche il tema dello schiavismo, della diaspora.

Sembrano parole desuete, lontane, eppure la Leigh, sempre lo scorso anno, è stata anche la prima artista nera a rappresentare il Padiglione degli Stati Uniti. La prima artista nera in 127 anni di Biennale. Il che dovrebbe fare ancora molto riflettere.

Quello che invece manca alle collografie tutt’attorno, dell’artista cubana Ayón è invece la bocca. Chi sono queste persone così cupe e perché non possono parlare? Sono i membri di una confraternita segreta afrocubana di soli uomini chiamata Abakuá, il cui mito di fondazione si basa sull’atto di tradimento commesso da una donna.

Tradimento… anche questa è una parola emersa diverse volte nell’incontro nella scuola I.G.E.A. ma con un’accezione positiva, che riguardava l’arrivo alla consapevolezza del sé. E tradire, significa infatti anche consegnare, affidare, trasmettere, tanto che da questo significato originario è derivato il termine tradizione, che indica, non a caso, una trasmissione di conoscenze, sentimenti, valori2 di solito compito o, meglio, dote naturale del femminile.

Affascinata e forse anche turbata da questa società segreta, Ayón ne ridisegna la storia trasformandola in società matriarcale e dando alla donna quella centralità che all’epoca non ha potuto avere. È la traditrice infatti ad essere protagonista. Una principessa di nome Sikán che solitamente viene raffigurata priva di lineamenti, ad eccezione, come già accennato prima, degli occhi. Anche l’artista la riporta così, come rappresentata in passato: sono rare infatti le volte in cui essa appare nella sua interezza.

Lei vede e, non avendo la bocca, contiene. Non potrà più tradire. È come se portasse sempre il niqab. Ancora oggi tutto questo si ripete, perché pare che vada così, che la storia si ripeta come racconta Igor Sibaldi nel Libro delle Epoche.

Guardo sul web le immagini di queste donne forti e fiere che manifestano, penso ai loro occhi e automaticamente mi compare la Santa Lucia davanti al giudice di Lorenzo Lotto. Ha il dito puntato in alto e successivamente verrà rappresentata con gli organi della vista serviti su un vassoio, oppure, come nella splendida tavola di Francesco del Cossa, trasformati in gemme e offerti come un fiore.

Periscopio ed Enigmi in un’unica immagine. Gli enigmi che riportavano quadri del passato con il dito puntato in alto, come lo sguardo della vittoria, come quello che cerca le stelle e ringrazia o indica l’invisibile nel visibile, la meraviglia trattata nell’incontro della dottoressa Poli sull’In-dimensionale4.

E senza di lei, senza Lucia, Dante non avrebbe nemmeno potuto portare a termine il suo viaggio. È una guida, eppure non ha gli occhi, o almeno non li ha lì dove di solito sono posizionati. È senza occhi, eppure ci dà luce nel giorno più buio dell’anno che la commemora. Ci insegna a guardare, a guardare altrove e in modo diverso anche se apparentemente non sembrerebbe possibile, come anche Mariacristina Errani ci racconta. Prima di iniziare le lezioni, la dottoressa apre un regalo che sarebbe dovuto arrivare il 13 dicembre. È una candela profumata realizzata da Lucia Dessy5, una delle docenti dell’accademia e guarda caso anche qui il nome torna. Poi si procede, a candela accesa, con la prima lezione di Elsa Veniani6. Racconta della sua entrata ed uscita dalla selva oscura e cita Le otto montagne7.

Non posso non pensare che la domenica precedente, prima di andare al cinema a vedere proprio quel film sono stata catturata dal libro Il cercatore di essenze. Viaggio alle origini del profumo8. “Ogni profumo è un viaggio”, leggo nella quarta di copertina, “Prima di evaporare sulla pelle, stuzzica l’immaginazione, risveglia ricordi e racconta una storia: quella degli uomini e delle donne che lo hanno scelto e quella degli ingredienti che lo compongono. Le essenze naturali sono la parte più magica di un profumo”. Le essenze naturali potrebbero rappresentare le parti più intime di noi, più spontanee, e, di conseguenza, le più nascoste una volta divenuti adulti, confuse nei tanti ingredienti che contiene poi il profumo, che è il tutto.

Spesso ascoltiamo, annusiamo, viviamo le cose più intense ad occhi chiusi. Li chiudiamo per vedere quello che c’è dentro, il nostro mondo. Cerco nel libro la pagina che riguarda la Persia, visto che prima di arrivare a quelle immagini Lucilla Giagnoni9 ha citato anche Le mille e una notte10, Shahrazād e tracciato delle connessioni fra questa donna e quelle che oggi manifestano. “La Persia”, scrive Roques nel cercatore di essenze, “ama molto le rose”.

Il 17 gennaio mi reco ad un incontro su Rennes-le-Châteaux e Maria Maddalena e scopro che oltre a Sant’Antonio, in questo giorno, si celebra anche Sante Roseline de Villeneuve il cui nome richiama la Rose Line, la Linea della Rosa. Roseline era una ragazza molto generosa e pare che tutte le mattine portasse del cibo ‘rubato’ ai poveri. Quando il padre si insospettisce e le chiede di aprire il suo grembiule, esce come per magia, un tappeto di rose.

Mentre sto cercando di capire come chiudere queste riflessioni mi chiama un’artista che fra l’altro non sentivo da un po’ di tempo. Potrebbe sembrare eccessivo o romanzato, adattato, eppure non lo è affatto. È così. Si chiama Lucia e mi chiede se ho piacere di curarle la mostra che sta preparando sulle donne che curavano e guarivano con le erbe. Penso che a Venezia c’è il Santuario di Santa Lucia con le sue spoglie e mi auguro che quella rotta, che un tempo univa i commerci fra la città lagunare e la Persia possa oggi portare forza a queste donne così coraggiose. Donne che nonostante sappiano a cosa vanno incontro, sanno già vedere da altre prospettive, con altri occhi. 

Di Eva Comuzzi